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Cinque sottospecie di hangar primitivi ad indirizzo d’uso militare, fatti di mattoni rossi, che  vengono occupati da numerose famiglie, ognuna delle quali delimita i propri spazi interni con muri divisori che però arrivavano fino ad una certa altezza, lasciando un piccolo spazio aperto dal quale, rumori, odori e umori si fondono in un’unica grande casa.

Un anziano signore dalla lunga barba che compare facendosi largo attraverso le lenzuola stese su fili tesi tra due capannoni una volta fermatosi al centro dello spiazzo viene raggiunto da due bambini che in silenzio trascinano due bombole del gas vuote e improvvisandosi chirichetti iniziano a percuoterle: è il suono delle campane che annuncia l’inizio della messa della Domenica mattina; i fedeli escono dai capannoni e si riversano nel patio per celebrare la funzione.

Gli uffici del comune che donano delle vecchie bare svuotate perché il legno possa essere recuperato e bruciato per scaldare i cittadini di un quartiere popolare o meglio di  un unico grande villaggio autogestito: Corea (Sassari).

Si fa fatica a pensare che immagini come questa non siano tratte da opere di Distopia moderna, ma siano invece state partorite dalla realtà, proprio la stessa realtà che noi oggi abitiamo, presso i medesimi luoghi, che dentro i racconti di altri tempi assumono tratti indistinguibili. La storia di questa borgata mi affascina sempre tanto, per l’assurdità della sua genesi, per la sua microcomunità che sviluppò dei propri costumi, i propri riti e perchè quasi mai citata, addirittura sconosciuta ai più, spesso dimenticata insomma. Soltanto un capannone rimane in piedi oggi, proprio quello che fu in passato adibito ad uso scolastico all’interno della comunità,  oggi, come uno squarcio nel tempo ospita il TeatroSA’rja.

Il racconto che segue è frutto delle preziose testimonianze e del meticoloso lavoro di ricerca svolto da Maurizio Casu:

“Le casermette erano cinque. Cinque capannoni, un cortile, un grande silos per raccogliere l’acqua, una fontana e un muro di mattoni di tufo a rinchiudere tutto il perimetro. La seconda guerra mondiale era finita. Per primi arrivarono gli ex militari e s’insediarono alla buona nel punto più lontano dalla strada principale. Poi arrivarono tutti gli altri, famiglie che non potevano permettersi l’affitto ne tanto meno l’acquisto di una casa. In poco tempo tutti i capannoni vennero occupati, frazionando gli ambienti con dei muri divisori per realizzare diversi appartamenti.  Un nome generico per indicare una zona affollata, periferica e disagiata. Probabilmente derivante dalla guerra in Corea di quegli anni, dove gli Italiani erano impegnati in missioni umanitarie con ospedali da campo. 

Numerose erano le abitazioni e le campagne oltre il muro e numerose erano le spedizioni esplorative dei ragazzi. Si cercavano pezzetti di legno per il fuoco, lumache, asparagi, nel giardino della villa di Dottor Ghio si raccoglievano le ciliegie, si andava fino al mulino, oppure verso Osilo al rio di Bunnari nella valle dei ciclamini. Tutte le mattine dalle campagne circostanti arrivava zia Maria “la pastora” per vendere il latte appena munto, passava di casa in casa. Le visite nel rione erano poche, un medico, il prete, il barbiere e occasionalmente un fotografo, più avanti passava anche qualche ambulante con articoli di merceria.

I negozi di generi alimentari erano due. Il primo si trovava all’esterno delle mura, in via Carlo Felice, proprio di fronte all’ingresso del rione, dalla parte opposta della strada, Il proprietario era zio Giuseppino che permetteva di aprire conti da saldare a fine mese. In seguito si trasferì all’interno di Corea, in uno spazio libero. Il secondo negozio in ordine di tempo, era quello di Tittino. Nei ricordi ci sono i gelati e i “lastroni” di zucchero venduti da entrambe i negozi. 

La scuola rappresentava per i bambini uno dei primi contatti con il mondo esterno, quello a pochi metri, oltre il muro. Le maestre della materna Albina e Gabriella, quelle delle elementari Coratza e Arcolaci ed il maestro Achenza arrivavano ogni mattina per le lezioni.

Il pranzo veniva preparato a scuola e consumato in refettorio. Al pomeriggio le attività proseguivano con il C.r.e.s. (centro ricreativo educativo scolastico), con lo svolgimento dei compiti, ma anche giochi, canti e balli.

Una figura fondamentale della scuola era Signora Francesca, bidella (oggi la chiameremmo collaboratrice scolastica) e custode insieme al marito, Signor Delogu. «Era il tramite fra noi insegnanti e il quartiere, bisognava ascoltare i suoi preziosi suggerimenti. Conosceva tutti e sapeva indirizzare gli aiuti che davamo verso le famiglie veramente bisognose in maniera anonima, ma a scuola era un generale! Rispettata e temuta dai bambini».

La mediazione della collaboratrice era fondamentale per capire il contesto e la veridicità di alcune richieste particolari. «Nei circa dieci anni di insegnamento abbiamo vissuto due ondate di traslochi. Gli abitanti di Corea andavano via man mano che venivano consegnate le case popolari nei nuovi quartieri di Latte Dolce e Santa Maria di Pisa». Gianfranca aiutava le famiglie a compilare le
domande di richiesta per l’assegnazione di un alloggio popolare, prima che il tempo cancellasse la memoria di Corea, prima che le ruspe abbattessero la vergogna, prima che i rulli compressori appianassero la curva dei ricordi."

Alessio Pintus 

Maurizio Casu

VDD

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